La Liturgia tra storia e memoria
NOSTALGIA DELL’ANTICOMA
INESAURIBILE NOVITA’
di INOS BIFFI
L’Osservatore Romano giovedì 22 novembre 2007
Una memoria segno e presenza dell’opera di salvezza: è una definizione teologica limpida e precisa dell’Eucaristia e di tutta la liturgia, che dall’Eucaristia irraggia e in essa si risolve. La troviamo nella secreta del messale di Pio V, alla IX domenica dopo pentecoste – ora nella II per annum – ma la formula è antica, e già la contengono i primi sacramentari. Nel suo nitido latino suona così : Quoties huius hostiae comemoratio celebratur, opus nostre salutis exercetur, e una sua versione, che purtroppo non riesce a rendere il tenore e l’eleganza originaria, potrebbe dire: “Ogniqualvolta è celebrata la memoria di questo sacrificio, diviene operante l’opera della nostra salvezza”.
Non è facile reperire un termine che renda adeguatamente l’exercetur originale, ma il concetto è chiaro: nella memoria liturgica – come per una vittoria sul tempo e sul suo potere logorante – si trova ravvivata l’opera della nostra salvezza.
Questo testo ha particolarmente richiamato l’attenzione dei grandi liturgisti e autori del movimento liturgico nel secolo XIX e XX – come Guéranger o Schuster – che lo ricordano e lo commentano, e la stessa costituzione Sacrosanctum concilium del Vaticano II lo cita, per determinare il ruolo della liturgia nella vita della Chiesa.
Oggi, forse, importa particolarmente ritornare alla chiara visione teologica della liturgia, così perspiquamente evocata da questa breve orazione: un suo annebbiamento o una sua trascuratezza comporterebbero il fraintendimento della celebrazione. E possiamo riconoscere che esso è, qua e là, avvenuto e lo si può cogliere dove la celebrazione non risalti originariamente come atto di Cristo, che coinvolge nei suoi misteri, come luogo della sua signoria, come dono del suo Spirito in una Chiesa fedele e orante, tutta presa dal rendimento di grazie e dallo stupore di incontrare e “trattenere” Cristo nei santi segni. L’espressione è di sant’Agostino: In tuis te teneo sacramentis.
Ma torniamo alla “secreta”.
In essa l’Eucaristia è compresa come “celebrazione della memoria del sacrificio”, e come rito che rimanda all’avvenimento storico della croce.
Sennonché questo avvenimento, svoltosi e circostanziato nel tempo, non è sentito come definitivamente consumato e ceduto al passato, di cui sia diventato irrimediabilmente possesso, e che solo si possa ritrovare nelle tracce precarie lasciate o riesumate nella forma labile di un ricordo dello spirito.
L’immolazione della croce, nella quale si è compiuto l’opus salutis – l’espressione è già di Leone Magno – è percepita come presente: nella celebrazione della sua memoria è attiva; o “in esercizio”, l’opera della salvezza, avvertita non come un episodio del passato, semplicemente rievocato, o solo intensamente rappresentato, ma come un fatto che dispiega tutto il suo vigore nell’attualità.
Il sacrificio del calvario ha segnato per sempre la storia, quasi vincendone la forza naturalmente logorante: avvenuto nel tempo “una volta per tutte” (Ebrei 9,28) – “morì sotto Ponzio Pilato” – esso si è posto “sopra” ogni tempo, per non tramontare mai nel seguito dei secoli: non c’è momento rispetto al quale il sacrificio della Croce sia lontano o luogo dal quale sia assente.
Nella celebrazione eucaristica, che è il modello e il principio di ogni celebrazione, la memoria non si ripiega su se stessa, ma si apre a una presenza; il segno non è il delinearsi della pallida immagine di un irrecuperabile passato, ma l’aprirsi di un’inesauribile novità.
Ma questo non sorprende: la morte di Gesù non è una fine, ma un compimento; in essa si avvera l’eterno disegno di Dio che tutto mirava al Cristo crocifisso e risuscitato. Nella sua morte, coronata di gloria, Gesù è costituito Signore, che tutto attrae a sé (Gv 12,32); essa possiede una grazia illimitata, o – direbbe san Tommaso – è provveduta di una virus salvifica, che non si consuma: nel Corpo dato e nel Sangue sparso il Padre ha dato tutto e per sempre.
Nell’Eucaristia, come in ogni azione liturgica, si ritrova il Crocifisso glorioso, che rende partecipe della grazia del suo sacrificio, ed è come dire che effonde il suo Spirito.
A costituire i sacramenti, a renderli efficaci, è questa presidenza personale e attuale di Gesù, o questa “iniziativa” del Risorto, che non solo li ha storicamente istituiti, ma ogni volta li sostiene e ad essi conferisce sostanza e validità. Ogni sacramento è indice infallibile della puntuale e salvifica fedeltà di Gesù Cristo.
A questa presenza era particolarmente sensibile sant’Ambrogio. Scriveva “E’ Cristo stesso a compiere l’offerta in noi: lui stesso che sta presso il Padre”; “E’ Cristo che battezza nella Chiesa”.
E, parlando del battesimo in una veglia pasquale, egli osservava: non fu papa Damaso a purificare, non il vescovo Pietro d’Alessandria, non Ambrogio, non Gregorio Nazianzeno a Costantinopoli, poiché se “nostra è la presenza ministeriale, di Cristo sono i sacramenti” – nostra servita, tua sacramenta.
I nostri riti riescono efficaci per la garanzia che Gesù stesso conferisce loro, ossia perché primariamente sono segni da lui gestiti e colmati, quasi involucri che ne contengono la presenza e la grazia. Secondo la tradizione e precisa espressione teologica, ricorrente nello stesso magistero ecclesiastico, i ministri nei sacramenti agiscono in persona Christi, cioè come vicari o rappresentanti di Cristo; mentre celebrano, essi sono intimamente associati e connessi con lui, che si trova dietro la loro opera liturgica quale vero e unico Autore dei sacramenti, che incessantemente fonda e accorda valore al servizio ecclesiale.
Questo è indispensabile, perché compaia il sacramento, ma sempre come professione di fede e di obbedienza, come accogliente e riconoscente disponibilità, che non suscita ma riceve la grazia, che appartiene esclusivamente al Signore.
Fosse lasciato solo, il ministro sarebbe sterile; in realtà esso istituisce una compagnia con Gesù Cristo, un consenso a lui, che “precede” e “pre-occupa” il segno sacramentale.
La conseguenza sarà che tutto nel rito liturgico dovrà far emergere Gesù Cristo, l’unico supremamente interessante; tutto dovrà porre in risalto che egli è il Primo, e che non siamo noi, evitando tutto quanto potrebbe oscurare o far passare in secondo ordine la sua signoria.
La liturgia non è un ripiegarsi della Chiesa su se stessa, per autocelebrarsi, ma è memoria delle “meraviglie di Dio” compiute in Gesù Cristo; è incessante esaltazione non di nostre imprese, ma delle “grandi cose che il Signore ha fatto per noi” (Slm 126,3) e quindi è contemplazione, gioia, adorazione. Ma anche e soprattutto la liturgia è dramma, estremamente serio, perché incessante “annunzio della morte del Signore, in attesa della sua venuta (Cor 11,26). Nella loro varietà e nel loro molteplice linguaggio, i riti valgono perché professano tutti la loro relazione con Cristo e perché tutti significano la fede e l’obbedienza della Chiesa, che tramite l’azione liturgica riceve da lui l’opera di salvezza.
E’ facile vedere che, senza questa teologia o, meglio, senza questo “cristocentrismo”, ogni “arte del celebrare” si dissolve in estetismo, ogni formazione è svuotata di contenuto, e ogni recupero si stempera in pura nostalgia dell’antico.